
Una parte sostanziale della cattedrale di Notre-Dame non è più. Poche ore di fuoco, inspiegabilmente appiccato e sconsideratamente incontrollato, hanno potuto distruggere secoli di storia.
Il coraggio dei pompieri e la forza della pietra hanno salvato la struttura, ma molto – troppo – è perduto per sempre. Qualcuno ha scritto che il danno non è poi così grave ed in parte è vero, in rapporto allo sgomento che tutti abbiamo provato, quella notte del 15 aprile scorso, di fronte alla paura di svegliarci il giorno dopo e ritrovare in piedi solo l’involucro esterno della grande cattedrale.
Ma ciò non significa che quello che si è perduto non avesse un valore inestimabile: strutture lignee che in gran parte risalivano al XIII secolo, aggiunte successive tutte congruenti con i modi tradizionali della costruzione gotica e, soprattutto, parti restaurate o ricostruite da Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc, tra le quali la celeberrima flèche – la guglia – che costituivano (è difficile usare l’imperfetto, ma purtroppo è così) un pezzo di storia del restauro stilistico ottocentesco.
Un intervento, quello di Viollet, notissimo a livello internazionale e topos della formazione di base di qualunque studente di architettura.
Le opere realizzate dal celebre architetto tra il 1844 e il 1864, prima in collaborazione con il più anziano e autorevole Jean-Baptiste Lassus, poi da solo, rappresentano infatti ormai un pezzo di storia della cattedrale parigina altrettanto significativo quanto le stratificazioni precedenti e non è ammissibile considerare la loro perdita un “male minore”. Architetto geniale e colto – ancora in attesa di una piena rivalutazione della sua multiforme e complessa personalità, soprattutto in Francia, benché in occasione del bicentenario del 2014 siano proliferate nuove pubblicazioni ed alcune esposizioni – Viollet-le-Duc aveva condotto il restauro di Notre-Dame con amore e dedizione.
Egli era giunto alla scelta di ricostruire la flèche solo alla morte di Lassus nel 1857, completandola tra il 1859 e i 1860 con una struttura mista in legno e piombo sbalzato. Il risultato, ormai pienamente stratificato nel palinsesto della fabbrica a distanza di quasi un secolo e mezzo, era quello di un’architettura sull’architettura, realizzata con ampi margini “inventivi” ma sulla base di una rigorosa conoscenza dello stile, che ne faceva una pagina fondamentale per la comprensione della cultura neomedievale ottocentesca. Un «medioevo fantastico» – per usare il celebre titolo del volume di Jurgis Baltrušaitis – che affascinava quanto quello autentico, oggi ancor più di prima, alla luce della più profonda comprensione raggiunta dalle attuali generazioni nei confronti della cultura storicista che ha attraversato tutto il XIX secolo fino ai primi decenni del XX.
Per questo la perdita dell’intero tetto e della flèche di Notre-Dame è un danno gravissimo. Oserei dire superiore a quello dello squarcio delle due volte a crociera del transetto e della navata principale (per quanto strutturalmente molto grave anch’esso), perché quest’ultimo è in buona parte affrontabile con gli strumenti ormai consolidati del Restauro. Certo, anche nel caso delle volte si dovranno fare scelte difficili sulle modalità di ricostruzione, che assicurino al contempo compatibilità di materiali (pietra con pietra) e riconoscibilità dell’intervento (trattamenti superficiali diversi o in sottosquadro) in modo che le generazioni future ricordino l’evento del 15 aprile come un monito e non siano ingannate dal falso restauro, potendo sempre riconoscere l’antico dal nuovo, come da oltre un secolo e mezzo sanciscono i principi della disciplina, codificati anche in documenti internazionali. Ma molto più difficili saranno le scelte relative alla copertura e soprattutto alla flèche: in un caso per la difficoltà di reperire quantità di legname tali da poter utilizzare lo stesso materiale di quello originario (cosa altamente preferibile per ragioni di compatibilità con le murature rispetto all’acciaio), in un secondo per ragioni ancora più complesse di ordine metodologico e formale.
A poche ore dall’incendio, con le macerie ancora fumanti, si sono già levate le voci di alcune archistar più o meno celebri, insieme a molti architetti aspiranti tali, che hanno espresso la propria opinione su come e se ricostruire il tetto e la flèche, avanzando anche improbabili progetti. Allettati dall’annuncio del presidente Macron di affidare la ricostruzione a un concorso internazionale di architettura e – cosa ancora più grave – di scavalcare il codice del patrimonio e le norme sugli appalti, gli architetti di tutto il mondo hanno provato a giocare con Notre-Dame, complici i potentissimi strumenti di simulazione tridimensionale e foto-inserimento di cui tutti oggi disponiamo. Sono venute fuori proposte di ricostruire il tetto e la guglia in acciaio e vetro – come un redivivo Crystal Palace di Paxton – avanzate con lievi varianti da Norman Foster e Massimiliano Fuksas, altre che immaginano improbabili serre vegetali, fino ad assurdità che non è nemmeno il caso di commentare.
Non è questa la risposta giusta a un problema così complesso. Se questo gioco può divertire gli architetti creativi, ai quali in fondo di Notre-Dame importa ben poco, inebriati da una ennesima occasione per esprimere le proprie gesta, non diverte affatto chi Notre-Dame la conosceva profondamente, la studiava, la indagava, la amava. A tutti coloro che sentono ancora vivo il dolore della ferita aperta dall’incendio del 15 aprile in un monumento di eccezionale rilevanza simbolica, prima ancora che architettonica, non può interessare l’esercizio formalista delle più stralunate ipotesi per la ricostruzione della copertura, e la loro immediata condivisione attraverso i social. È un esercizio che nega il più elementare dei sentimenti che si affacciano nei confronti di una distruzione come quella di Notre-Dame: la pietas per il monumento, che deve venire ben prima di ogni sciacallaggio progettuale, pietas che questo sciacallaggio deve impedire e limitare.
Non bastano forse le tante esperienze del secondo dopoguerra – basti citare la Santa Chiara di Napoli – o quelle più recenti e controverse della Fenice di Venezia e della cattedrale di Noto, per rimanere in Italia, o della Frauenkirche a Dresda e del Neues Museum a Berlino, per dimostrare che su questi temi c’è un dibattito complesso e profondo, che non può essere ignorato adesso, pena ripetere gli stessi errori del passato? Il caso di Notre-Dame, fortunatamente, è ben diverso da molti di quelli che abbiamo appena citato: la sopravvivenza di gran parte della struttura muraria consente di procedere a un restauro delle parti distrutte che non comporti la falsificazione di ciò che è irrimediabilmente scomparso, ma nemmeno la rinuncia ad una riproposizione della configurazione originaria della copertura. Ma per fare questo non è necessario, né opportuno, appellarsi allo star-system dell’architettura.
Le archistar, in molti casi geniali, tendono infatti a lasciare la loro firma dietro ogni opera e soprattutto non hanno (quasi mai) esperienza di restauro, lavoro paziente e silenzioso, molto diverso dal circo mediatico che accompagna tutte loro straordinarie opere. Per questo non è a loro che occorre rivolgersi, ma al mondo altamente specializzato del restauro architettonico, che vanta in Francia e in tutta Europa eccellenze straordinarie e invidiate da tutto il mondo. Esiste da almeno due secoli la cultura della conservazione, della cura, dell’attenzione paziente a ogni traccia che il monumento porta ancora con sé, insieme al riconoscimento di quelle perdute, e questa disciplina si chiama Restauro, pur con le sfumature di significato che questa parola assume alle varie latitudini del mondo.
Ed è alla disciplina del Restauro che oggi spetta la parola, innanzitutto, in rapporto al destino di Notre-Dame. Non certo ad architetti più o meno creativi che non hanno tuttavia mai indagato la storia costruttiva di una cattedrale gotica, i suoi materiali, il suo complesso comportamento strutturale. Abituati da secoli ad affrontare problemi complessi come questi e soprattutto a discuterne dialetticamente, i restauratori sono gli unici soggetti da chiamare in causa in un caso drammatico e assolutamente emergente come questo di Notre-Dame, coadiuvati da tutte le competenze che da decenni collaborano con loro: storici dell’architettura e della costruzione, scienziati dei materiali, ingegneri strutturisti, chimici.
Di fronte a un malato grave come Notre-Dame di Parigi c’è bisogno innanzitutto di diagnostica, conoscenza, pazienza, e non di soluzioni confezionate e formaliste, elaborate al computer in una manciata di ore. E di questo ne sono convinti non solo gli esponenti della cultura del Restauro, ma tutte le persone dotate di buon senso. Una grande archistar francese, Jean Nouvel, autore di decine di edifici di rilevanza internazionale, ha giustamente invitato l’amministrazione alla cautela: «Laissez le temps du diagnostic aux historiens et aux experts avant de vous prononcer sur l’avenir du monument», ha saggiamente osservato. Lo ha detto Jean Nouvel, un uomo incline a sedurre il grande pubblico con le forme architettoniche, ed in tal senso la sua esortazione è ancor più significativa.
Cogliendo il buon senso di queste riflessioni, numerosi appelli hanno circolato in questi giorni per invitare alla cautela, alla pazienza, al rispetto delle procedure ordinarie, al fine di avviare innanzitutto la diagnosi e la ricognizione di quanto sopravvive e di quanto è distrutto, prima di formulare alcuna ipotesi di intervento. Alcuni di essi sono stati firmati dai più autorevoli esponenti della cultura del restauro francese ed europea, insieme a storici dell’architettura, intellettuali, studiosi, tutti sgomenti davanti all’idea che il destino di un monumento universale come Notre-Dame possa essere deciso in modo tanto sommario.
Ci auguriamo che il presidente Macron e tutte la autorità responsabili delle decisioni in merito prendano seriamente in considerazione questi appelli. Perché Notre-Dame, forse più di ogni altro edificio in Francia, è davvero quello che si definisce un patrimonio universale. Affidarne il destino ad un singolo, per quanto geniale, sarebbe il più grave degli errori.
Questo scrivevamo alcune settimane fa, preparando questo articolo. Purtroppo, a smentita di ogni migliore auspicio, il 16 luglio scorso l’Assemblea Nazionale francese ha approvato la legge speciale per la ricostruzione di Notre-Dame, con 91 voti favorevoli, 8 contrari e 33 astensioni. Dopo un acceso dibattito parlamentare, nel quale molte voci contrarie si sono levate su questo provvedimento, la legge approvata fissa il completamento delle opere di restauro di Notre-Dame a cinque anni, in tempo per le Olimpiadi di Parigi del 2024. «Bisogna accettare che il tempo della ricostruzione non sia quello della politica o degli eventi» ha tuonato l’opposizione, ma senza ottenere alcuna modifica ai propositi del presidente Macron. Ciò che appare più grave, tuttavia, è la deroga che questo provvedimento speciale consente alle leggi sull’ambiente e sul patrimonio. Sembra davvero un paradosso che nega il buon senso: per restaurare un monumento insigne come Notre-Dame occorre derogare alle leggi che normano e disciplinano il restauro. Ma forse il buon senso non alberga più nel tempo che viviamo.
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